L’aggettivo “marrone” è variabile o invariabile? Questa è un’altra questione che ci sta a cuore su Vaporteppa e che da un anno e mezzo ormai inseriamo nelle note editoriali degli ebook.

Quello del “marrone” è un dilemma che molti non sanno nemmeno esista e che scoprono avvicinandosi, spesso, all’editoria grazie ai siti che consigliano quali errori comuni di scrittura possono infastidire un editore. Tra “d eufoniche”, “qual è” con l’apostrofo e i “perché” con l’accento girato male, spesso tira fuori la testolina il “marrone” come aggettivo invariabile. Niente plurale.

“Ma cosa?” dirà qualcuno. Se ci pensate nel parlato siamo abituati a usarlo un po’ come capita, talvolta facendone il plurale e talvolta no, ma in molti casi ci viene naturale farlo.

“Prendi un paio di guanti di pelle nuovi”
“Li vuoi neri o marroni?”

Oppure

“Col completo blu indaco metto le scarpe nere?”
“Stai meglio con quelle marroni”

E così via.
Ma allora facciamo bene o facciamo male a fare il plurale dell’aggettivo marrone con marroni? Secondo gli editori dobbiamo fare… eh, in realtà non sono troppo sicuri nemmeno loro!

Se prendiamo Il Signore degli Anelli,  abbiamo 2 marrone al plurale:

Frodo riuscì appena in tempo ad afferrare Sam per i capelli quando questi tornò in superficie, gorgogliando e dimenandosi. La paura era dipinta sui suoi tondi occhi marrone

Ma sulle prime gli Hobbit notarono soltanto gli occhi. Occhi profondi che li osservavano, lenti e solenni, ma molto penetranti. Erano marrone, picchiettati di luci verdi.

e ben 3 marroni al plurale:

querce giganti che incominciavano appena a gettare i primi germogli verdi e marroni.

Li scorgeva strisciare su per i pendii, soli o in fila indiana, sempre all’ombra di cespugli e boschetti, resi quasi invisibili dagli abiti verdi e marroni fra l’erba e le felci.

Era vuoto e silente, ed appena un filo d’acqua scorreva tra i sassi marroni o color rosso dell’antico letto

Cambiamo libro e cambiamo editore, andiamo da Mondadori.

Guardiamo La figlia del drago di ferro di Michael Swanwick, raccolto in I draghi del ferro e del fuoco, Millemondi Urania numero 54, dove troviamo 6 marrone al plurale:

Accanto alle scapole le sporgevano due chitinosi moncherini marrone, tristi residui di quelle che in gioventù dovevano essere state ali.

Indossava una vestaglia di spugna e un paio di malandate ciabatte marrone

Li guardò maliziosamente, mettendo in mostra denti marrone e orrende gengive.

Il troll si passò la mano sulla testa coperta di macchie marrone e abbassò il tono

Era nudo, a parte un paio di calze e scarpe marrone allacciate strette e la parte superiore di una maglietta grigia

Teneva immobili lungo i fianchi le mani di porcellana segnate dalle macchie marrone dell’età

Nessuna presenza di marroni al plurale

Non ci hanno chiarito molto le idee: ne Il Signore degli Anelli entrambe le forme sembrano permesse, e addirittura sono impiegate entrambe dal traduttore, mentre ne La figlia del drago di ferro si trova solo marrone invariabile.

I marroni sono marroni, o i marroni sono marrone?

Ma da dove viene questa regola del “marrone” invariabile e che senso ha?
Un sostenitore di questa opzione è Aldo Gabrielli, autore del famosissimo Si dice o non si dice che già avevamo citato, tra i diversi esperti di grammatica, nel video sul sé stesso con l’accento.

Leggiamo cosa dice:

Si deve dire guanti marrone oppure guanti marroni?

L’uso al plurale di marrone, inteso come colore, è molto comune (“guanti marroni”, “stoffe marroni”), ma non è corretto. Dovremmo dire guanti marrone, abito marrone, scarpe marrone. Perché? Perché marrone non è aggettivo come verde, giallo, rosso, azzurro, celeste eccetera, che richiedono, ovviamente, l’accordo nel genere e nel numero col sostantivo da cui dipendono: veste azzurra, calze rosse, libri gialli, prati verdi. Marrone è sostantivo, per l’esattezza è il nome di un frutto, e segue la stessa legge dei sostantivi, come rosa, ciliegia, ciclamino, viola, arancio, cenere, corallo, seppia, ocra e altri, quando ci servono per indicare un colore. Nessuno direbbe “vesti rose”, “capelli ceneri”, “seta coralla”, ma sempre e soltanto “vesti rosa”, “capelli cenere” “seta corallo”; si costruisce cioè, mentalmente, una frase ellittica (vedi ellisse o ellissi?) che per esteso suonerebbe così: “vesti del colore della rosa”, “capelli del colore della cenere”, “seta del colore del corallo”. Di conseguenza diremo guanti marrone, cioè “guanti del colore del marrone”.

Per capire ancora meglio, osserviamo questa differenza: calze rosse, ma calze rosso fuoco. Nel primo caso, per indicare il colore abbiamo usato l’aggettivo rosso, ovviamente al femminile plurale; nel secondo caso abbiamo usato il sostantivo fuoco, al quale si riferisce l’aggettivo rosso, come se dicessimo “calze del colore del fuoco rosso”.

Quindi, come abbiamo visto, “marrone” è un sostantivo usato come aggettivo e pare seguire una regola speciale per i sostantivi, ma è davvero così? Siamo sicuri che “marrone” non sia anche un aggettivo vero e proprio che segue le regole degli aggettivi come verde, giallo, rosso ecc.?

Accademia della Crusca, aiutaci tu!
E mettete il sale nel pane, porcoddio!!!

Per dirimere il nostro dubbio non resta che l’Accademia della Crusca che nel maggio 2015 ha pubblicato online la risposta ufficiale, e direi definitiva, alla questione. La risposta è lunga e non è semplicissima, per cui vi invito a leggerla. Io vi riporto giusto un riassuntino.

Andando molto al sodo, in italiano abbiamo due tipi di cromonimi: quelli derivativi e quelli originali. I derivativi sono cromonimi che nascono dalla sostanza a cui si riferiscono… marrone è il colore tipico del marrone, il frutto, come arancio è il colore tipico dell’arancia. I cromonimi originali sono quelli che non derivano dal colore tipico di una qualche sostanza: rosso, bianco, giallo ecc.
I derivativi di norma sono invariabili, senza plurale, e gli originali sono variabili. Ok? Sembra facile, no?

A complicare la questione vi sono gli aggettivi variabili ottenuti mediante suffissi agli aggettivi invariabili: e così “rosa” e “viola” sono gli invariabili colori, mentre “rosato”, “roseo”, “violaceo” sono variabili.
E che dire di “blu”? Blu è un originale, ma essendo monosillabo tronco lo usiamo invariabile.

Ancora peggio se andiamo alle origini, all’etimologia di certi aggettivi variabili. Azzurro, per esempio, viene dal persiano lažurd, variante di lažward, e indica infatti il colore della pietra del lapislazzulo. Siamo proprio nella zona del marrone che indica il colore del frutto del marrone, e non si batte ciglio a dire azzurri al plurale.

Lapislazzuli felici di complicarci la vita.

Insomma, la posizione manichea su derivativi invariabili e originali variabili sembra fare parecchia acqua, all’atto pratica, come ci mostra la Crusca che dice:

All’interno di questo quadro stupisce meno, dunque, il caso di un aggettivo variabile corrispondente a un cromonimo derivativo. È questo, appunto, il caso di marrone, ormai sedimentatosi nell’uso (dove ha sostituito il più antico bruno) anche in forma declinata per numero. La ragione di questo fenomeno potrebbe essere una scarsa familiarità dei parlanti con il frutto del marrone, oppure l’attrazione che su di esso esercitano altri cromonimi uscenti in -e normalmente declinabili (verde, celeste), o ancora al fatto che marrone rientra in italiano tra i termini di colore basici [….] in gran parte sovrapponibili a quelli che qui abbiamo citato come originali.

Per chi è poco famigliare col marrone: in Italia con marroni si intendono particolari cultivar di ottima qualità del castagno (castanea sativa). C’è chi preferisce dire sempre castagno (e quindi intendere marroni solo come frutti di particolari castagni) e chi sottolinea la varietà coltivata specifica di castagno chiamando marrone anche l’albero, ma se si dice castagno e castagneto comunque non si sbaglia.

Nella Grammatica Italiana di Serianni, per esempio, marrone non risulta essere invariabile, e l’Enciclopedia Treccani concorda sulla legittimità del plurale dicendo:

L’aggettivo marrone varia normalmente nel numero: una scarpa marrone, due scarpe marroni

La Crusca sottolinea anche che non è nemmeno possibile ritenere l’aggettivo “marroni”  una forma colloquiale, perché è presente anche in ambiente letterario. Va proprio bene, c’è poco da dire! Non è una variante popolare, è GIUSTO e basta al di là di ogni ragionevole dubbio.
Fa strano che Gabrielli, a differenza di tanti altri esperti, non abbia tenuto in considerazione questi fatti e abbia fatto l’errore di imporre “marrone” come unico possibile plurale: ci troviamo di nuovo di fronte a una ipercorrezione.

Messaggio per i Grammar Nazi: proprio come nel caso di “sé stesso”, a cui volete togliere l’accento, fate un favore al mondo e quando sentite “marroni” evitate di gridare la vostra ipercorrezione. Mentre ci raccontate la soluzione inesistente a un problema che non sussiste, ci state solo mostrando che di grammatica non capite proprio un cazzo. Ma che novità c’è? ^_^

Arance arancioni

BONUS: Arancione e arancioni

Passiamo a quest’altra questione, meno problematica perché di norma nessuno si fa problemi a dire o scrivere “arancioni”. Però meglio parlarne. Mentre per “arancio” come colore del frutto dell’arancio non c’è problema, è considerato invariabile, il problema si presenta con il misterioso “arancione” di origine italiana incerta e che lascia perplessi gli esperti di grammatica, anche se tendenzialmente lo ritengono variabile.

Arancio viene da “rancio”, termine all’epoca usato anche al plurale per esempio da Dante Alighieri (che fa la rima “guance – rance”) o negli Statuti senesi del 1298 (dove troviamo “panni ranci”). Arancione invece pare apparire per la prima volta nel 1829, nel Vocabolario universale italiano compilato a cura della Società Tipografica Tramater.

Arancione pare essere un normale aggettivo anche se nato, caso praticamente unico, dall’aggiunta del suffisso -one al nome arancio già esistente. E va bene usarlo come aggettivo variabile. L’uso invariabile, minoritario, probabilmente viene solo dall’influenza di quanto accade più spesso con marrone.

Alla prossima!

8 Replies to “Il plurale di “marrone” è “marroni”?”

  1. Ecco la soluzione a un problema che non mi ero mai posta in vita mia XD. Mai incontrato nessuno che mi correggesse sul “marroni”. Bell’articolo.

  2. Forse il futuro video dedicato a questioni grammaticali lo dedicherò al pregevole “piuttosto che” usato male: il disgiuntivo ignorante più amato da chi si crede acculturato. Un fenomeno di barbarie chic dall’alto, invece di evoluzione della lingua dal basso. Da Milano con furore.

  3. Ma…”piuttosto che” non significa “invece di”? O non ha alcun significato?

  4. Ma…”piuttosto che” non significa “invece di”?

    Va usato con una contrapposizione, in una avversativa per esempio, sì.

    Esempio dal sito Treccani:
    “Preferisco andare in bicicletta piuttosto che usare l’automobile.”

    Esempio mio:
    “Lo spettatore sarà più disturbato da personaggi piatti, dai cliché, dal già visto, piuttosto che da una recitazione mediocre.”
    Significato della frase in italiano: “Personaggi piatti, cliché, già visto procurano un disturbo maggiore allo spettatore rispetto a una recitazione mediocre.” (Ovvero ciò di cui il video parla ampiamente dopo)

    L’uso errato di “piuttosto che” è quello con valore disgiuntivo, ovvero al posto di “o”. Moda arrivata dall’area di Milano negli anni ’80-’90 e diffusasi grazie ai professori universitari prima e poi, per imitazione di questi dotti signori di grande cultura, diffusa da televisione e giornalisti negli anni 2000.

    Usi a cazzo in voga tra giornalisti e pseudo intellettuali:
    “Al mercato potete trovare ogni tipo di verdura: pomodori piuttosto che (= oltre che) peperoni, piuttosto che melanzane”
    “Questa sera, se vogliamo uscire, possiamo andare al cinema piuttosto che (= oppure) a teatro”

    La seconda frase in italiano risulta indecifrabile: in teoria ha detto che il cinema è meglio del teatro (es. se prima hanno parlato di teatro e lui non è apparso esplicitamente entusiasta, questa frase indica una palese scelta a favore del cinema e contro il teatro, e chiunque sentendola capirebbe che a teatro preferisce NON andarci)…
    … ma nella sua testolina di imbecille matricolato alla scuola dell’italiano chic di ispirazione lombardidiota, è convinto di avere detto “oppure” intendendo che teatro e cinema per lui vanno bene uguale, e lui ha solo suggerito l’opzione per gentilezza verso altri.

    Nel momento in cui una lingua non è in grado più di trasmettere informazioni tra chi la usa, non è più una lingua: sono latrati scomposti.

  5. O Disgiuntivo denuncia Piuttosto Che per furto d’identità. E l’ego di MV muore scoppiato. XD
    Una storia a metà tra il giallo e il comico.

  6. Sono venuto a conoscenza del “piuttosto che” usato come disgiuntivo solo qualche anno fa. Ricordo ancora come: leggevo un articolo che ne faceva ampio uso, praticamente ogni “o” era sostituita da un “piuttosto che”. Dopo i primi paragrafi di incomprensione e grattamento di capo intuii cosa l’autore volesse dire, e dopo qualche ricerca venni a sapere del fatto. Chissà quante volte ho frainteso l’intento di un autore prima di allora.
    Ora ogni volta che lo incontro tendo a mettermi il problema, ma solitamente è facile capirlo: un articolo scritto in linguaggio eccessivamente forbito da un autore intellettualoide lo userà come disgiuntivo; altrimenti con ogni probabilità è da intendere come comparativo.

    Interessante è anche il doppio significato di “ovvero”, che è possibile intendere come “oppure” o “ossia”. Io ho sempre prediletto il secondo significato, forse a causa dell’ampio uso che ne veniva fatto un tempo per introdurre i sottotitoli di opere letterarie e non, ma in questo caso il primo significato sembra essere quello più “corretto”, anche se ormai utilizzato soltanto in documenti formali.

  7. Sì, “ovvero” si può usare in entrambi in modi, ma l’uso disgiuntivo come sinonimo di “o” e “oppure” è tipico ormai dell’italiano burocratico e meno diffuso in quello popolare (o letterario, anche, mi risulta ma potrei sbagliarmi).
    Nel Grande Dizionario Italiano dell’Uso di De Mauro l’uso di “ovvero” è dato principalmente come esplicativo, e solo secondariamente come disgiuntivo.

    Anche se un “ovvero” esplicativo non perde il valore disgiuntivo, visto che serve solo a presentare un modo alternativo di esprime la stessa cosa: “Gertrude è mia zia, ovvero la sorella di mia mamma” oppure, nel romanzo di Sciascia del 1977, Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia (a ispirazione del titolo di Voltaire). I due elementi parlano della stessa roba: è come presentare una scelta tra due modi di dire qualcosa che però riguarda una cosa sola.

    Se volete metto in programma anche un articolo e un video su questo.

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