La Premessa: il Senso della Storia

[Questa è la sesta lezione del Corso Base di Sceneggiatura: se hai perso l'introduzione al Corso Base di Scrittura e Sceneggiatura, ti consiglio caldamente di leggerla!]

 

Abbiamo un personaggio con un difetto fatale, abbiamo dei chiari obiettivi e abbiamo il conflitto. Ma non basta. Se vuoi tramutare la vicenda in una storia “vera”, è preferibile che vi sia un filo conduttore che unisca tutte le scene non solo a livello causale o cronologico, ma a livello tematico.

In una storia non si cerca la riproduzione dell’insen­satezza della vita: le storie hanno una funzione (definita, tra virgolette, “religiosa”) che è quella di illudere l’uomo che ciò che accade abbia un senso e che la vita non sia una massa di roba a caso poco o nulla governata dalle azioni dei protagonisti.

Immagina una storia come Il Padrino che si concluda, prima della resa dei conti, con Michael Corleone che al ristorante mangia un alimento guasto e poco dopo muore in ospedale per una reazione allergica a un farmaco. Oppure John Rambo che prima di mettere a ferro e fuoco Hope, poco dopo aver rubato la mitragliatrice, viene decapitato da un frammento di meteorite.

Nella vita può accadere una sfiga mortale, è credibile, ma che senso avrebbe per Rambo o per Il Padrino? Le storie, che siano narrativa scritta o cinema o teatro, sono lì per fornirci un’espe­rienza di “senso” che manca alla vita quotidiana.

Già al tempo di Aristotele si consigliava che ogni scena successiva dovesse essere conseguenza logica (credibile, probabile) e necessaria (cioè strettamente legata ai fatti, e quindi ai personaggi) della scena precedente: cosa c’è di logico o necessario nel caso? Eh, sì, già al tempo degli antichi greci i Deus Ex Machina erano considerati espedienti di merda a malapena sopportabili.

Come scriveva Aristotele nella Poetica:

Dei racconti e delle azioni semplici, quelli episodici sono i peggiori; chiamo infatti “episodico” quel racconto in cui non c’è né verosimiglianza né necessità che gli episodi si susseguano in un certo modo.

La narrativa va oltre la realtà, anche quando finge di rappresentarla con precisione. Ricordate le precedenti discussioni su personaggi, conflitto e difetto del protagonista?

L’arco eroico di trasformazione se il difetto viene superato, o quello autodistruttivo se non viene superato, sono entrambi modi di dare “senso” agli eventi, servono a dare un messaggio: chi si adatta sopravvive, chi si rifiuta di adattarsi muore. In senso non per forza letterale.

Ci sarebbe poi da discutere per bene su cos’è una tragedia attraverso le possibili sfumature dell’arco del personaggio, ma non è un argomento di base e se ne parlerà nel Corso Avanzato.

Vediamo come dotare la storia di un filo conduttore ulteriore, a parte l’indicazione di costruire la vicenda attorno al difetto fatale del personaggio. Andiamo oltre il difetto e vediamo come indirizzare la vicenda che su quel difetto si baserà.

Questo filo conduttore è chiamato “premessa” (premise, in inglese) e viene insegnato da molto tempo. È un concetto chiave in L’Arte della Scrittura Drammaturgica di Lajos Egri, del 1942.

Nei testi più moderni, come L’Arco di Trasformazione del Personaggio di Dara Marks, non si parla della “premessa” chiamandola con questo nome, ma si sfrutta un concetto diverso che però, nell’essenza, è praticamente identico ed è pensato per integrarsi più naturalmente nel discorso della Marks.

Lo vedremo tra due lezioni, quando parleremo de L’Arco di Trasformazione del Personaggio. Anche in molti altri testi recenti capita che non si parli affatto della premessa o che la si descriva solo per sommi capi, senza approfondire, definendola spesso “tema”.

La premessa è una frase che farà da “tesi” dimostrata dalla storia. Non è necessario che sia una tesi universalmente vera, basta che sia vera per quel protagonista in quella storia. La premessa non è il tema della storia. La premessa è la tesi sostenuta riguardo quel tema.

È il “punto di vista tematico”, come direbbe la Marks. Ma se trovate qualcuno, come detto prima, che usa tema per intendere la premessa, va bene uguale. Basta capirsi: alla fine le definizioni sono solo convenzioni di comodo interne a uno specifico manuale, che gli altri manuali non sono tenuti in alcun modo ad adottare.

Non è la premessa nel senso del punto di partenza di un’argomentazione, ma è la tesi dimostrata in un percorso scena per scena. È l’anima della storia, è la premessa che ci diamo noi nell’elaborare le diverse scene, non qualcosa che il lettore/spettatore sa prima. Un filo conduttore della vicenda per progettarla meglio.

Noi useremo sia tema che premessa, per intendere due concetti diversi. Immagina il tema come una singola parola e la premessa come una frase che dice cosa accade data la parola del tema. Il nostro punto di vista su quel tema. Esempi di temi e di possibili premesse:

  • Tema: Ricchezza.
    Premessa: la ricchezza rovina le persone.
  • Tema: Sesso.
    Premessa: il sesso prematrimoniale porta alla rovina.
  • Tema: Orgoglio.
    Premessa: l’orgoglio precede la caduta.
  • Tema: Amore.
    Premessa: senza amore non può esserci felicità.
  • Tema: Bontà.
    Premessa: la bontà di cuore porta alla morte.
  • Tema: Amicizia.
    Premessa: la vera amicizia permette di superare ogni difficoltà.
  • Tema: Amicizia.
    Premessa: i legami di amicizia portano alla rovina.

L’ultima è una variante specializzata di “la bontà di cuore porta alla morte” visto che si potrebbe svolgere in modo tale che la generosità del personaggio nel soccorrere e nel difendere i propri amici, in virtù di un senso del dovere verso chi gli è amico, porti solo problemi peggiori (cattive amicizie che trascinano a fondo?).

Bontà nei confronti di persone specifiche in nome dell’ami­cizia, con risultati estremamente negativi: in entrambi i casi il personaggio per sopravvivere potrebbe dover divenire più egoista e voltare le spalle agli altri.

La premessa va formulata con la struttura “Tema-Conflitto-Risultato”. È importante che la premessa sia espressa con una formula causa-effetto e va costruita secondo questi tre elementi, di cui il primo deve suggerirci il protagonista (ovvero qualcosa inerente al suo difetto fatale o a una sua dote vincente), il secondo deve suggerire un conflitto possibile e il terzo deve dirci il risultato.

“La generosità cieca porta alla rovina”: un uomo generoso che aiuta chiunque, senza discriminare (“generosità cieca”, protagonista), a causa delle proprie azioni altruistiche (“porta alla”, conflitto) finisce rovinato a livello economico e probabilmente anche affettivo (“rovina”, finale).

Per questo serve che sia una frase precisa e specifica, e non una stupidata vaga come “in guerra la gente muore” o “la povertà è brutta”. Queste due pessime idee possono trasformarsi in premesse decenti se le esplicitiamo dando loro un chiaro risultato e specializzando l’appli­cazione.

Per esempio possono diventare “la guerra tramuta in mostri brutali anche le persone migliori” e “la povertà conduce al crimine”. È facile vedere in entrambi i casi la struttura in cui il protagonista affronta un conflitto e ne viene trasformato: la persona per bene affronta la guerra e per sopravvivere diviene uno spietato assassino; un uomo onesto cade in miseria e la società, chiusa, avversa ai poveri e in depressione economica, lo obbliga ad accettare di rubare pur di poter sopravvivere.

Quindi non è possibile scegliere a cuor leggero, come se fossero la stessa cosa, “la generosità cieca porta alla rovina” oppure “l’egoismo conduce alla vittoria” perché non sono identici e non portano alla stessa identica storia.

  • La prima premessa suggerisce un percorso tragico, in cui alla fine si giunge alla rovina o perlomeno vi si giunge a metà vicenda, se poi il personaggio cambia e si riscatta con l’egoismo (ma ci aspettiamo una ricaduta e strascichi fin dentro al terzo atto).
  • La seconda premessa suggerisce un percorso eroico di vittoria dell’egoismo che non implica che il personaggio fosse straordinariamente generoso all’inizio, magari è solo una persona comune che deve imparare a sviluppare un cuore di pietra.

La premessa non è qualcosa di razionalmente dimostrabile, ma è ciò che l’autore sosterrà implicitamente nell’arco dell’intera storia. O anche esplicitamente, ma è pericoloso: “l’orgoglio precede la caduta” è la premessa sottintesa in La Caduta dei Giganti di Follett ed è anche la frase ripetuta più volte nell’episodio della cameriera divenuta governante e messa incinta dall’aristocratico. Esplicitare la premessa nei dialoghi però non è il massimo…

State attenti a rendere la premessa una cosa sottintesa, che pervada coi suoi effetti le vicende, e non qualcosa di spiattellato esplicitamente, men che meno in un dialogo: la “morale della favola” di norma al pubblico non piace.

Il pubblico vuole essere considerato abbastanza intelligente da cogliere il senso generale di una vicenda (anche se magari non sa formulare una premessa, visto che il pubblico fortunatamente non è formato da soli sceneggiatori) senza che gli si debba spiegare tutto come si fa con i bambini piccoli.

Per questo è importante che la premessa sia qualcosa in cui credete, o in cui avete creduto in passato abbastanza a lungo da essere pieni di idee, situazioni, riflessioni e sfumature da trattare, in modo che scaturisca naturalmente da voi.

Spesso la premessa non è qualcosa che decidete a tavolino prima di iniziare, ma qualcosa che scoprite mentre progettate la storia, quando situazioni e personaggi marchiati dalla vostra impronta stilistica iniziano a suggerirvi di cosa parlerà la vicenda nel profondo. Potete addirittura arrivare a capire in pieno la vostra premessa solo dopo la prima stesura.

L’importante è arrivare al risultato e, se servirà, riscrivere o buttare ciò che non si sposerà bene con la tesi che volete sostenere. Scoprire ciò di cui volete parlare prima di iniziare a scrivere è meglio, altrimenti è come uscire di casa a passo spedito senza avere bene idea se sia per andare al supermercato, in edicola, al bar o a pagare qualche euro ai barboni per picchiarli con dei manici di scopa. Prima capite dove state andando, e prima potrete capire se state sbagliando direzione o no.

Io ai miei autori consiglio di avere tutto ben chiaro in mente fin dalla progettazione, e al massimo di cambiare il necessario entro la fine del primo atto. Risparmieranno un sacco di tempo per trovare le idee per le scene e non dovranno buttare metà delle pagine scritte.

Sarà che non sono di quelli a cui piace andare a spasso “tanto per” e quando esco lo faccio per andare in un posto specifico per un obiettivo specifico, per cui mi pare strano che un prodotto preciso come un romanzo ben fatto possa nascere dal vagabondaggio senza meta.

La premessa plasma la storia e la storia dimostra la premessa, coerentemente. Come ambientazione, storia e personaggi sono tutti creati l’uno in funzione degli altri, così anche la premessa, influenzando la storia, influenza tutto il resto.

Non è una “morale” buttata dentro perché sì, come va di moda tra gli scrittori pseudo-intellettuali, e che fa storcere il naso ai lettori un po’ smaliziati: la premessa è l’essenza di tutta la storia.

Il compito retorico dell’autore è convincere il pubblico della credibilità e bontà della storia, e quindi della sua premessa. Mostrarci la propria visione del mondo e, se non proprio convincerci, perlomeno farci un po’ dubitare che potrebbe avere ragione.

Attenzione, la premessa non è l’idea di base della storia! Sembra stupido dirlo, ma meglio precisare. Un autore può avere come idea di base questa: un’entità offre a delle ragazzine di esaudire un loro desiderio in cambio di un patto apparentemente innocente, diventare maghette e difendere l’umanità dai mostri, che si rivelerà nelle sue reali conseguenze di patto diabolico solo un poco alla volta.

Nulla di questo però ci dà il filo conduttore della storia. Potrebbe essere il classico “la vera amicizia permette di superare ogni difficoltà”, con le maghette che trionfano sui nemici del genere umano e alla fine anche sul patto diabolico che hanno scioccamente accettato. Oppure potrebbe essere “la bontà di cuore porta alla morte” in cui cercare di aiutare gli altri in nome della generosità causerà sempre e solo problemi peggiori (la spirale dei fallimenti).

Nel primo caso si ha un classico anime con le maghette, seppure con una punta di cattiveria in più vista la natura del patto. Nel secondo caso si ottiene l’anime Mahō Shōjo Madoka Magika del 2011, che fino al penultimo episodio è saturo di disperazione.

Moltissime critiche rivolte all’ultimo episodio di Madoka Magica, trasmesso assieme al penultimo con oltre un mese di ritardo dopo lo tsunami (mentre le altre serie avevano saltato solo una o due settimane), derivarono dall’aver tradito il tono di disperazione della storia e probabilmente anche la tesi che sosteneva. L’ul­­timo episodio ribalta tutto e dirotta la storia sui binari più tradizionali, da normale anime a tema maghette.

Il finale non è sbagliato nel senso di “illogico”, ma il senso della storia è cambiato ed è su questo senso che dobbiamo concentrarci per ragionare seriamente di storie: si dà per scontato che a livello logico e causale tutto torni, ma non c’è alcun vanto nel fare solo quello.

Sarebbe come essere un sarto professionista che si vanta di fare vestiti personalizzati su misura: è ovvio che li faccia su misura, è un sarto, se no uno andrebbe a comprarsi la giacca in un negozio normale! Che vanto è?

Il pubblico si è sentito tradito dal cambio radicale del finale, si sospetta riscritto in tutta fretta in chiave buonista (forse partendo da un finale buono già pronto, disegnato e doppiato, in caso di necessità) perché inizialmente prevedeva fortissimi richiami alla distruzione legata allo tsunami.

Scenari di palazzi devastati e sommersi appaiono negli episodi precedenti, e le atmosfere giocavano molto sulla paura giapponese degli tsunami. L’anime aveva già avuto problemi in fase di realizzazione per colpa della crudeltà dell’epi­sodio tre, ma Urobuchi, lo sceneggiatore, aveva tenuto duro contro il parere degli altri.

I produttori e lo sceneggiatore forse hanno preferito evitare di calcare ancora la mano sulla disperazione esistenziale e sull’inca­pa­cità dell’uomo di cambiare il proprio destino. Una morte orrenda per sé e per gli altri, e infine per l’universo in un meccanismo perverso di autodistruzione, è l’unico destino possibile: questa è la verità di cui veniamo convinti fino all’episodio undici.

Come capita spesso con film, serie o manga non è strano che vi fossero due finali disponibili pronti (o praticamente pronti) in caso di necessità di un cambio all’ultimo momento. Con i film spesso il finale e alcune scene vengono modificati in base al responso del pubblico di test. Chi non ricorda il finale alternativo in cui Rambo muore, proprio come nel romanzo da cui è tratto il film? Anche se ne avrebbero usato solo uno, ne hanno creati e preparati due.

La reazione del pubblico allo stravolgimento del senso di Madoka Magica andò da “il finale fa schifo e non c’entra nulla con il resto dell’anime, il vero Madoka Magica finisce all’episodio undici” a “poteva essere un capolavoro, il più grande anime della storia, invece per colpa del finale è solo un anime molto ben fatto”.

A me in generale non interessano gli anime a tema maghette, e questo è l’unico che mi sia piaciuto davvero perché va oltre le stupidaggini classiche del genere e diventa reale drammaturgia, non diversa da quella della tradizione greca o di Shakespeare.

Difendere il finale buonista come naturale e ovvia conseguenza dei precedenti undici episodi è impossibile: il tradimento della tesi è stato eccessivo. Può piacere lo stesso, in fondo non è brutto, ma non è né elegante né naturale. Questo è un fatto, poi ognuno ha i suoi gusti, ovviamente, ma noi ci occupiamo di fatti e non di gusti.

Madoka Magica tra gli anime di maghette era come un Re Lear, ma proprio come Re Lear aveva un problema di fondo che portato agli estremi, il finale negativo, avrebbe potuto causare un rigetto del pubblico se non ben gestito.

Allora forse il lieto fine è stato il male minore… ma l’ideale sarebbe di non doversi trovare mai a tradire la premessa per correggere il tiro dell’opera! Piuttosto la si cambi e si ripensi la storia daccapo!

Madoka Magica è uno dei migliori esempi di come trasmettere un senso di disperazione esistenziale e di nichilismo (l’apice è nell’episodio dieci, forse il più potente episodio nella storia degli anime), ma è anche uno dei più turpi esempi di tradimento della tesi di un’opera.

Rimane tra gli anime più apprezzati degli ultimi anni, con buoni motivi: nel suo piccolo ha fatto la storia, portando il ribaltamento della classica storia di maghette nel mondo dell’ani­mazione giapponese…

… ma non ha rischiato per puntare al capolavoro tragico, a divenire il Re Lear delle maghette. Questo non è l’effetto sul pubblico che un autore vorrebbe.

Facciamo degli altri esempi di premessa:

  • Lolita: il grande amore porta alla morte.
  • Il Padrino: la lealtà verso la propria famiglia porta a una vita di crimini.
  • Romeo e Giulietta: il grande amore vince anche la morte.
  • Macbeth: l’ambizione spietata conduce all’auto­distru­zio­ne.
  • Re Lear: la fiducia cieca porta alla distruzione.

La premessa può sembrare un cliché o una frasetta stupida, ma è l’elemento che sintetizza una buona storia e centinaia di altre storie simili. Tutta la storia deve essere al servizio della premessa, con scene scelte con cura per sostenerla. La premessa rende quella serie di scene una storia unica e coerente.

Questo concetto è importante perché quando scriverai le scene del tuo romanzo queste dovranno essere progettate per essere al servizio della premessa che avrai individuato: avere chiaro in mente il concetto donerà ancora più eleganza, ovvero assenza di parti inutili o ridondanti, al tuo romanzo.

Una storia senza premessa risulterà, anche al lettore non in grado di comprendere cosa manchi, come una serie di scene che mandano avanti la vicenda e basta, senza altro motivo per essere lì. La sensazione che le scene non servano e siano state messe solo per far massa.

Peggio ancora: avrà la sensazione che alcune scene (quelle che gli piacciono meno, di solito) siano proprio inutili. Un romanzo così chi lo consiglierebbe agli amici? Un film di quelli di cui viene da dire “dura tre ore, ma poteva durarne due e sarebbe stato meglio”. Viene voglia di vederlo?

E anche qui si torna a quanto diceva Aristotele nella Poetica:

il racconto, essendo imitazione di un’azione, deve rappresentare un’azione in sé completa e conclusa, con le sue parti così strettamente connesse che spostandone o togliendone una allora anche l’in­sieme risulterebbe sconnesso o rotto. Ciò di cui non si nota affatto la presenza o l’assenza, non può essere parte reale del tutto.

Molte storie condividono l’identica premessa, eppure sono totalmente diverse. Prendiamo per esempio la premessa di Re Lear, “la fiducia cieca porta alla distruzione”: è la stessa premessa del romanzo Caligo. Davvero qualcuno ha difficoltà a distinguere Re Lear da Caligo? Una tragedia di Shakespeare da una commedia sexy steampunk a Genova?

Quando cerchi il tema e la premessa, pensa a qual è la forza trainante della storia. Concentrati per capire attorno a quale valore, a quale emozione, a che cosa la storia ruoti e da cosa sia mossa.

Spesso avrà a che fare col difetto fatale del protagonista, visto che la premessa della storia riguarda le vicende del suo arco e ne descrive uno dei due aspetti: quello del fallimento iniziale o, ancora meglio, quello della vittoria successiva. Nel caso di una tragedia, rappresenterà magari tutto l’arco tragico come in Macbeth.

Prendiamo per esempio Romeo e Giulietta, esempio che piace a Lajos Egri. Qual è la forza trainante dell’ope­ra, l’odio o l’amore? La vicenda parte dall’odio delle due famiglie, costrette alla rivalità anche se i rispettivi capifamiglia preferirebbero arrivare prima o poi alla pace. Come tanti leader credibili hanno il problema di essere circondanti da sottoposti idioti e pericolosi (come in Atto I, scena uno).

Ma è l’odio a vincere? No, anzi, l’odio tra le due famiglie rinforza solo l’amore dei due giovani. Le avversità causate dall’odio vengono affrontate. Alla fine della storia ha trionfato l’odio? No, Romeo e Giulietta pur di continuare a stare insieme scelgono di farlo nella morte visto che in vita non è più possibile.

L’amore supera la vita e sopravvive alla morte, mentre l’odio tra le due famiglie si estingue di fronte all’orrore di quanto avvenuto. L’opera parla chiaramente dell’amore come forza trainante della vicenda, e l’odio è solo il suo antagonista.

La premessa non è semplicemente una guida per dare un senso alla storia in fase di progettazione o per aggiustare le cose nella prima fase di riscrittura post-bozza, se la premessa è stata individuata dall’autore solo dopo aver già scritto vari capitoli.

La premessa è un elemento di controllo in fase di editing con cui si valuta ogni scena domandandosi: contribuisce alla premessa? Se la togliessi la premessa sarebbe ugualmente dimostrata? Particolarmente utile per eliminare sotto-trame incoerenti e personaggi mal progettati, in particolare tutto ciò che è gratuito o episodico. E notare per tempo i finali che tradiscono l’opera.

Come sarebbe stato Il Padrino senza la discesa morale del protagonista, sempre più in basso, da eroe di guerra ad assassino del proprio stesso fratello? È quella lealtà che porta al crimine a essere il centro dell’opera, fino a quando la fedeltà alla famiglia (nel senso mafioso) porta alla distruzione della famiglia (nel senso dei parenti), abbinando alla premessa iniziale una deliziosa atmosfera di fallimento del protagonista come Uomo, nonostante l’apparente successo come Padrino.

E anche quella sensazione di fallimento si sentiva da molto prima, da quando il padre Don Vito gli dice di essere soddisfatto di quello che ha fatto nella propria vita e che ora tocca a lui continuare a rendere grande la famiglia. Era annunciato e si costruisce lentamente. Come nelle grandi tragedie greche o di Shakespeare.

Il fallimento completo di un personaggio che vive all’ombra del padre, i cui successi sono stati più modesti, ma sono anche stati molto più chiari e privi di rimpianti. Michael vive l’essenza della tragedia moderna, la perdita dello scopo nella vita e il fallimento umano. Non è meglio una storia così rispetto a una fatta di scene incollate assieme solo per far arrivare la vicenda al finale?

C’è sempre una sola premessa per storia (ma possono esserci più storie parallele in un romanzo, ognuna con una diversa premessa). Una storia con due premesse distinte (o peggio, opposte) ha qualcosa che non va a livello funzionale, manca di eleganza e può risultare addirittura confusa.

Immagina che il tuo romanzo formato da una sola storia abbia capacità 100, usandolo tutto al meglio, di esprimere la premessa e che basti 70 per comunicarla in modo sufficiente: se hai due premesse e fai 50 e 50 nessuna delle due funzionerà davvero, mentre se fai 70 e 30 la prima sarà stata comunicata bene e la seconda avrà solo tolto spazio alla prima.

E soprattutto, se hai correttamente pensato la premessa come qualcosa che porta dentro di sé l’essenza della storia, col suo protagonista e il suo finale… come possono esserci due premesse che ci parlano di due finali, se uno solo è il finale? Pensa all’odio e all’amore in Romeo e Giulietta: alla fine la vera emozione che muove l’opera è una, e l’altra è solo al suo servizio come antagonista.

Se non hai chiara quale sia la tua premessa o se vuoi parlare di troppe cose assieme, prendi un bel respiro, domandati cosa conta davvero ora e metti da parte ciò che non c’entra per usarlo in una seconda storia con un altro protagonista (in quel romanzo o in un altro).

La premessa è uno strumento vecchio, affidabile e semplice da usare, come un martello… ma proprio come un martello, mancare di rigore nel suo uso preciso può portare a schiacciarsi le dita con errori grossolani, come costruire storie forzate che non rispettano i criteri di verosimiglianza e necessità.

 

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