Empatia: il Segreto delle Storie Migliori

[Questa è l'undicesima lezione del Corso Base di Sceneggiatura: se hai perso l'introduzione al Corso Base di Scrittura e Sceneggiatura, ti consiglio caldamente di leggerla!]

 

Abbiamo parlato in precedenza di come si struttura a grandi linee una storia, sul perché abbia bisogno di conflitto e sul motivo per cui questo conflitto debba essere legato a una caratteristica difettosa del protagonista.

Il protagonista è tale proprio perché quella sua caratteristica si rivela ormai catastrofica, tale da portarlo alla sconfitta se non la cambierà, a causa degli eventi… e la storia è interessante proprio perché il personaggio non è già perfettamente in grado di vincere, ma deve imparare come fare.

Fin qui tutto bene. Ma tutto questo conta qualcosa se del personaggio non ci importa nulla? Se vederlo perdere o vincere ci è indifferente? O peggio ancora, conta qualcosa se il personaggio ci dà fastidio e vogliamo vederlo solo perdere, per cui invece di dispiacerci per lui quando soffre pensiamo che se lo merita?

E quando alla fine vince, nell’improbabile caso in cui avessimo resistito fino alla fine a seguire la storia, ti pare una buona cosa se ci troviamo a pensare che sia un finale di merda e che non meritava minimamente di farcela?

A quanto pare c’è qualcosa di molto più importante della storia stessa, tanto da rendere la storia inutile se manca: l’empatia per il personaggio.

Per seguirne le vicende vogliamo soffrire con lui, essere in pena, provare dispiacere e ansia quando le cose gli vanno male ed esaltarci quando si riscatta e trionfa contro chi lo umiliava. Questo è il piacere proprio della narrativa o “piacere pertinente”, citando Aristotele.

Ecco, rimaniamo con il buon Aristotele, visto che nella Poetica identificò come utilissime per conseguire questo piacere tipico delle storie due caratteristiche:

  • La Paura
  • La Pietà

La Paura

La paura, secondo Aristotele nella Retorica, è l’anti­ci­pa­zione del male, è l’ansia e l’inquietudine che ci colpisce quando sappiamo di essere prossimi a un pericolo sufficientemente forte da metterci a disagio. La paura è causata dall’attesa di una catastrofe imminente.

La paura, secondo Aristotele, non è causata da eventi lontani nel futuro, ma da eventi prossimi. Non conta tanto il pericolo reale, ma l’incertezza del pericolo legata alla nostra percezione… talvolta una situazione sicura percepita però come un pericolo reale può terrorizzare più di un pericolo reale sottovalutato.

Quindi, per esempio, possiamo essere terrorizzati se sentiamo voci e rumori di notte in casa nostra perché dei ladri sono entrati e potrebbe succedere di tutto, senza sapere che il ladro in realtà è un coglione vecchio stile di quelli che scappano via frignando se si accorgono di essere stati scoperti…

... o magari non era neppure un ladro, ma nostra figlia che torna a tarda notte dopo essere uscita di nascosto nonostante il divieto di uscire quella sera… e ora si trova la fronte a un centimetro dalla penna del martello da guerra che il papino usa nelle rievocazioni storiche (e come difesa domestica da zingaro).

Nemmeno per lei c’è pericolo, visto che il babbino ha fermato il colpo per tempo, ma la percezione dell’evento è molto diversa e probabilmente bisognerà asciugare la pozza di piscio da terra.

Può invece lasciarci del tutto indifferenti uno sviluppo economico spregiudicato che aumenterà sempre di più il rischio di un conflitto continentale, o un mutamento climatico che potrebbe portarci all’estinzione o a perdere buona parte del benessere a cui siamo abituati nell’arco di pochi decenni.

Molte persone si mettono alla guida dopo aver bevuto a sufficienza da rallentare i propri riflessi e partono senza preoccuparsi del fatto che entro pochi minuti moriranno bruciate dentro il proprio veicolo dopo un incidente… il non sapere l’imminenza del pericolo evita la paura.

Ma come possiamo avere paura in una storia inventata?

La Pietà

Qui entra in gioco la pietà, ovvero la prefigurazione di un evento catastrofico a danno di qualcuno che non lo merita e per cui proviamo quindi dispiacere. La pietà discussa da Aristotele è quella che oggi chiamiamo empatia in una storia.

Quindi la pietà è scatenata dall’incer­tezza, dall’attesa, portata da un pericolo imminente, ovvero dalla paura, per il protagonista o altri personaggi di cui stiamo seguendo le vicende. In particolare per il protagonista, che è quello che seguiamo in modo più ravvicinato.

Ma perché dovremmo provare dispiacere? La parte difficile entra in gioco qui. La pietà è principalmente la reazione a un’in­giusta sofferenza e quest’ultimo concetto include la chiave della questione: se è ingiusta significa che non riteniamo che il personaggio se la meriti, quindi non ha fatto nulla che gli debba far meritare tale dolore e non pensiamo che lo meriti a priori perché ci sta sulle palle.

In pratica stiamo tifando per lui, e tifiamo per lui perché riteniamo che sia un personaggio che rispecchia i valori positivi in cui crediamo: lo vediamo come moralmente giusto.

Come spiega Aristotele non possiamo provare questo sentimento per persone che consideriamo maligne, perché non vogliamo che le loro pene siano alleviate, anzi, pensiamo proprio che si meritino le disgrazie!

Se fossimo indifferenti al destino del personaggio, non proveremmo paura per lui e quindi mancherebbe tensione drammatica. Se fossimo ostili al personaggio lo vorremmo vedere finire male… e questo funzionerebbe malino anche se fosse una tragedia, visto che poter fare il tifo per il personaggio che finisce male è comunque molto più coinvolgente emotivamente rispetto al mero godere delle disgrazie che capitano a uno stronzo. L’assenza di empatia compromette il godimento della storia.

Come mai proviamo paura? Perché nel vedere accadere eventi dolorosi a un personaggio che noi percepiamo positivo e quindi “come noi”, in quanto noi tutti ci vediamo come quelli buoni della situazione, non importa quanto facciamo schifo, in un certo senso ci immedesimiamo (lui è come noi, noi come lui) e quindi sentiamo che quel pericolo potrebbe riguardare anche noi o i nostri cari.

Tutti pensiamo che ci accadano cose brutte ingiustamente e molto raramente accettiamo che siano i nostri torti a causarle, per cui siamo molto sensibili all’idea di qualcun altro che, come noi, soffre ingiustamente e in cui possiamo rivedere la narrazione malata con cui giustifichiamo le nostre vite e sentirla rinforzata, come se ci dicesse “vedi, succede a lui che non ha colpe proprio come succede a te, vedi che quindi non è colpa tua se soffri?”

Nell’identificarsi col personaggio ha un ruolo determinante, nella narrativa scritta, l’uso di un solido punto di vista all’interno del personaggio. Un piccolo vantaggio rispetto ai film, in cui è più difficile ottenere un simile coinvolgimento.

Non per niente gli autori davvero esperti arrivano a prediligere un filtro profondo nella mente del personaggio in cui ogni evento è filtrato dalla sua mente (viviamo e percepiamo tutto come il personaggio) proprio per aumentare al massimo l’immersione e quindi l’em­pa­tia.

Ogni cosa è conseguenza di altre: se si accetta l’importanza dell’empatia, non si può rifiutare l’importanza di ciò che la potenzia.

Moralmente Giusto non significa Santo

Un personaggio moralmente giusto è un personaggio che percepiamo “come noi”, e per cui possiamo fare il tifo quando lo vediamo soffrire ingiustamente, ma non è un santo e non è senza peccato.

Nunzio in Alieni Coprofagi dallo Spazio Profondo è personalmente colpevole della propria condizione di obeso, ma questo non significa che meriti di venire umiliato di fronte ai colleghi dal suo capo perché, a causa della sua mole e della puzza di sudore che emana, non si è accorto di aver calpestato una merda e di averla portata fin dentro l’ufficio…

Il personaggio può anche essere una persona deprecabile, se nell’insieme è comunque “buona” rispetto agli altri attorno a lui (è nel suo piccolo il “fulcro del bene”, come dice Robert McKee in Story) o se scopriamo solo nel corso della storia la sua vera natura perché prima non ha motivo di apparirci nel massimo dello schifo.

Se ci affezioniamo a lui prima di scoprirne i lati peggiori, probabilmente rimarremo combattuti tra il nuovo disprezzo e il vecchio affetto e vorremo vedere come prosegue la storia. Buoni esempi di questo sono Ciro nella prima stagione di Gomorra e Walter White di Breaking Bad.

Comunque ricordiamolo… anche il più stronzo degli stronzi si considera una brava persona, per cui se non proviamo empatia significa che la storia è progettata male: non siamo veramente dentro di lui, nel suo punto di vista, se non lo vediamo come lui si vede.

Per una dettagliata trattazione su come presentare in modo positivo, per creare empatia, un personaggio negativo, ti rimando al mio Corso Avanzato. Lì analizzeremo la costruzione del­l’em­­pa­tia in Abaddon di Giuseppe Menconi e come un caso praticamente identico in un’altra storia, sbagliando l’ordine degli eventi da presentare, abbia ottenuto un effetto opposto.

E analizzeremo molto più nel dettaglio la questione dell’empatia. Questa è solo un’introduzione: se vuoi la spiegazione definitiva, la migliore possibile, con dettagliate e precise indicazioni da utilizzare nel tuo romanzo, devi sganciarmi i soldi. ;-)

Empatia non è Simpatia

Inutile precisarlo ma… il mantra secondo cui un personaggio dovrebbe essere simpatico è un suicidio artistico. Ed è una stronzata, dal punto di vista tecnico-teorico. Sì, se un personaggio ci è simpatico è più facile che lo consideriamo come noi e quindi che proviamo empatia, ma è una scelta facile e non è obbligata.

Ciro in Gomorra non è simpatico. Macbeth nell’omo­ni­ma tragedia non è un tizio simpatico. Nemmeno Walter White di Breaking Bad è simpatico. E non è simpatico Michael Corleone ne Il Padrino o Rambo nel suo film. E scusami se cito solo alcune tra le più grandi opere prodotte dall’abilità narrativa umana, eh!

Lasciamo perdere la simpatia: se c’è va bene, ma se non c’è va bene lo stesso perché quel che conta davvero è l’empatia. Chi rinuncia a scrivere di un personaggio che gli interessa perché non è simpatico, farebbe meglio a non scrivere proprio.

Comicità e Satira

Per finire, una piccola nota extra. Nelle storie con un forte umorismo l’empatia, in piccola dose, ancora ancora può tornare comoda, ma probabilmente non vorremmo l’immedesimazione. Prendete Fantozzi: ci dispiace per le sue sfighe, ma allo stesso tempo ne ridiamo per la loro assurdità.

Se fossimo dentro Fantozzi, se vivessimo il suo dolore come lui lo vive, non avremmo niente da ridere. Sarebbe orribile. Essere fuori grazie all’impo­stazione particolare di quei film, o alla presenza di un narratore “invadente” nelle storie comiche scritte, ci distanzia per evitare l’immedesimazione e ci permette di godere da fuori delle disgrazie altrui.

Disgrazie che però sono eccessive, esagerate, e quindi comiche. Con Rambo non ridiamo, eppure Rambo subisce una serie di disgrazie… ma sono tutte credibili. Con Fantozzi quando viene punito non lo vediamo licenziato o umiliato in modo credibile di fronte ai colleghi, ma lo vediamo crocifisso in sala mensa o assegnato al ruolo di parafulmine aziendale.

Quando la moglie vuole tradire Fantozzi, non ci troviamo di fronte a uno scenario di gelosia da film drammatico, ma in una casa in cui ogni cassetto trabocca di forme di pane… fino a quando Fantozzi capisce che la moglie è innamorata del panettiere.

In Un Pesce di Nome Wanda, Ken tenta in ogni modo di uccidere una vecchietta, e finisce per ammazzarle tutti i cani nel tentativo. L’ultimo cagnolino rimane spiaccicato sotto un blocco di cemento.

Quando il regista realizzò questa scena la fece in due varianti: senza sangue o col sangue, usando delle interiora prese in macelleria. Nella proiezione di prova venne usata la scena col sangue, e il pubblico non la trovò per niente divertente. Il sangue diceva che era una morte vera, non era comicità.

Per la proiezione nelle sale venne scelta la versione senza sangue: il film, giusto per ricordarlo, al botteghino guadagnò otto volte il proprio budget e divenne un classico tra le commedie.

Se Fantozzi subisse solo sofferenze realistiche in un contesto del tutto credibile, non rideremmo molto. E in ogni caso, se noi fossimo Fantozzi, non rideremmo per niente. Come non ridiamo quando Rambo ha i flashback sulle torture subite in Vietnam.

Ancora diverso il caso della satira. Nella satira si colpisce e si critica qualcosa della società che troviamo sbagliato e degno di bastonatura, per promuoverne il cambiamento. Questo può avvenire anche nel contesto di una tragedia tradizionale o di una storia eroica tradizionale: l’oggetto della satira può far parte del difetto fatale del protagonista o delle caratteristiche negative degli antagonisti.

Per esempio nel video dedicato alla Adpocalypse di YouTube, nel giugno 2017, Yotobi assume il ruolo dello YouTuber poco previdente che ha scommesso tutto su YouTube, ha fatto dei bei soldi in modo facile e ora sta perdendo tutto. Questa è una figura negativa che Yotobi critica, per cui non costruisce l’empatia nel “tramutarsi” e autoaccusarsi della cosa: vuole che godiamo nel pensare quanto queste disgrazie siano meritate.

Ci presenta gli YouTuber non come personaggi moralmente giusti per cui soffrire, ma come antagonisti moralmente deprecabili delle cui disgrazie possiamo godere come se l’Adpocalypse fosse una punizione divina legata al karma negativo.

Il video ha avuto un enorme successo da parte del pubblico, molto meno da parte degli YouTuber che si sono sentiti accusati, perché il pubblico trova che certi YouTuber siano moralmente deprecabili e quindi vede come un atto di giustizia la fine delle loro fortune viste come immeritate.

In una vicenda di pochi minuti funziona perfettamente, ma in una storia più complessa e strutturata, soprattutto se immersiva, l’ideale sarebbe stato mostrare l’arco eroico (o tragico) dello YouTuber che affronta il suo difetto fatale, oppure mostrare gli YouTuber che inseguono i soldi facili e non pensano al futuro come dei nemici da contrastare per il protagonista “formica” che costruisce un business lento e solido, e non fa come le “cicale” rivali che ora fanno più soldi di lui con la pubblicità e basta.

Trovi il link al mio commento al video di Yotobi nella pagina dedicata alla raccolta dei contenuti consigliati.

Questa breve introduzione all’empatia finisce qui. Per chi vuole approfondire sul serio, per imparare a padroneggiarla nella pratica e non solo averla capita a grandi linee nella teoria, vi rimando al mio Corso Avanzato ricco di esempi che coprono tutti i casi possibili della questione.

Per chi invece è interessato ad approfondire il pensiero di Aristotele, che ha ispirato le mie lezioni sull’empatia e da cui ancora oggi abbiamo moltissimo da imparare, suggerisco di leggere la sua Poetica, la Retorica e il saggio di Ari Hiltunen Aristotele a Hollywood (editor in Italia da Dino Audino Editore).

 

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