Armature e Armi da Fuoco alla Battaglia di Pavia

Questo articolo nasce dalla consulenza svolta per History Channel Italia sulle armi da fuoco e sulle armature presenti alla Battaglia di Pavia del 1525. Lo scopo della consulenza era quello di arrivare a definire l’arma da fuoco e il tipo di acciaio da utilizzare per simulare in modo realistico e storicamente attendibile quello che sarebbe potuto avvenire se un cavaliere francese avesse ricevuto un colpo di archibugio spagnolo contro il pettorale dell’armatura.
Un buon pettorale sarebbe rimasto intatto facendo spiaccicare il proiettile come si vede in una delle scene all’inizio del film di Ermanno Olmi Il Mestiere delle Armi? Si sarebbe piegato, ma senza forarsi, limitando il tutto a una brutta concussione e a una costola rotta? O il proiettile avrebbe sfondato l’armatura e sarebbe affondando nel corpo del cavaliere, che è quello che le testimonianze storiche affermano (con enfasi notevole)?

Per poter condurre test di penetrazione che simulino l’interazione tra le armi da fuoco utilizzate dalla fanteria imperiale e le armature indossate dai cavalieri francesi alla Battaglia di Pavia del 1525 bisogna conoscere sei cose principali:

    1- qual era lo spessore medio delle corazze usate dai francesi;
    2- con qual tipologia di acciaio al carbonio erano fabbricate;
    3- che forma avevano;
    4- quattro;
    5- quali armi da fuoco erano impiegate dalla fanteria imperiale;
    6- che prestazioni fornivano queste armi da fuoco;

Disponendo di queste informazioni è possibile scegliere di conseguenza i fogli di acciaio per i test, l’angolo con cui inclinarli e le caratteristiche che il proiettile deve avere all’impatto (forma, materiale, velocità).

Questo articolo non tratta la Battaglia di Pavia in sé e non approfondisce l’argomento dei moschetti con la forcella nel dettaglio (questo avverrà in un altro articolo apposito). Non contiene nulla di nuovo per chi ha letto i precedenti articoli sulle armi ad avancarica e sulle armature, ma è un esempio di applicazione a un caso reale delle nozioni apprese in precedenza. Per approfondimenti ulteriori segnalo:
Avancarica: energia cinetica e velocità
e Le Armature: test di penetrazione e conclusioni.

La Battaglia di Pavia, 1525
(cliccare per ingrandire)

Le Armature dei Cavalieri Francesi
Le armature impiegate dai francesi all’epoca erano sia di produzione francese che importate dal sud della Germania e dal nord dell’Italia. La produzione francese di corazze era abbondante e i documenti dell’epoca attestano centinaia di fabbricanti di armature tra Parigi, Bordeaux, Lione e Tours. Pochissimi esemplari di armature di fattura francese identificabili sono però arrivati fino ai giorni nostri e sono tutte in metallo di pessima o mediocre qualità (ferrite priva di carbonio e ricca di scorie o un mix di ferrite, perlite, pochissimo carbonio -0,1%- e scorie). La difficoltà identificativa dipende anche dalla pratica (a differenza di quanto accadeva in Austria, Germania Meridionale e Italia Settentrionale) di non apporre alcun marchio di fabbrica sui pezzi.

Questa ricca offerta interna unita alla cattiva qualità del prodotto fa ben capire come mai in Francia vi fosse anche una forte domanda di costose armature di fabbricazione lombarda e tedesca: se un ferro di cattiva qualità poteva andar bene per l’armatura di un normale uomo d’arme, di certo non andava bene per chi, come un ricco cavaliere o un nobile facoltoso, poteva investire in prodotti di maggiore qualità, di norma indicati come “a prova di balestra” (ad esempio le armature di fattura milanese-bresciana).
L’assenza della marchiatura che identifica con orgoglio il produttore, assieme alla richiesta di armature di importazione (i documenti a riguardo abbondano, con ordini di centinaia di bracciali, pettorali e gorgiere) e di artigiani stranieri (Gabriele e Francesco Merate, di Milano, dal 1494 al 1497 lavorarono nella città di Arbois, in Francia), sono tutte prove a favore dell’inferiorità tecnologica della metallurgia francese e della conseguente scarsa qualità della produzione locale.

Le armature italiane di alta qualità erano fatte di un acciaio a medio livello di carbonio e povero di scorie, simile come resistenza al moderno mild steel (acciaio dolce). Mancava ancora sia la tecnologia che il motivo (le armi da fuoco più potenti non erano ancora comuni) per produrre acciai interamente formati da martensite temprata in acqua e poi sottoposta a rinvenimento. Nella seconda metà del secolo (dal 1540) il primato tecnologico nelle armature passerà da Milano all’inglese Greenwich ed alcune città tedesche, in grado di ottenere sia dorature che alta qualità degli acciai, entrambe necessarie per il mercato di lusso.
In Austria già a fine ‘400, come anche in Italia, era possibile “in teoria” produrre armature in martensite sottoponendole a tempra con risultati più o meno validi (spesso la tempra non andava a buon fine) piuttosto che di perlite raffreddata ad aria, ma è più facile che la massa dei cavalieri francesi dotati di armature italiane non possedesse tali manufatti “ipertecnologici” (LOL).

Ciò non toglie che tanti cavalieri, per motivi di disponibilità o di mancanza di conoscenza, indossassero anche corazze di pessima fattura francese: è facile per noi giudicare la qualità di quegli acciai, con le foto al microscopio e secoli di conoscenze accumulate, ma lo era molto meno per la gente dell’epoca.
Inoltre le armi da fuoco usate dalla fanteria spagnola erano ancora una “novità” (per quanto venissero usate da 100 anni, dal tempo della guerra degli imperiali contro gli eretici Hussiti, ma fu un’esperienza “educativa” che coinvolse i tedeschi e non i francesi) e non il principale pericolo per i cavalieri, in particolare per quelli francesi, abituati a ragionare ancora in termini di “frecce e picche” come pericoli principali da cui difendersi.
In più, come vedremo dopo, la potenza di fuoco degli imperiali fu tale che non si può certo fargliene una colpa se i francesi arrivarono del tutto impreparati per resistere.

Una corazza francese in ferrite con scorie (composti simili al vetro che inquinano il metallo) è più dura di una in sola ferrite pura (non ottenibile con la metallurgia medievale): la durezza Vickers sale da 80 a 150-180.
Ma allo stesso tempo le scorie (3-4%) la rendono sia più dura che più fragile: la resistenza diminuisce da circa 200 KJ/m^2 (ferro puro spesso 2 mm) a 120-150 KJ/m^2. Apparentemente più “dure”, in realtà più fragili.

L’acciaio usato nelle armature milanesi
, a medio livello di carbonio (0,5%), con scorie attorno all’1%, ma non sottoposto a tempra (raffreddato ad aria formando così perlite invece di martensite), ha una resistenza alla frattura di circa 260 KJ/m^2.
Il miglior metallo trovato nelle armature francesi esaminate è un mix di ferrite e un pochino di perlite con lo 0,1% di carbonio e 1-2% di scorie: un acciaio (o meglio un ferro acciaioso) da 180-200 KJ/m^2.

Dettaglio di un’armatura di Francesco I di Francia,
acquisita a inizio Novecento dal Metropolitan Museum.

Le armature utilizzate dai francesi erano perlopiù armature a piastre di design “simile” a quello della AVANT, ovvero arrotondate (alla milanese) e non spigolate (alla massimiliana) come era invece la preferenza tedesca. Un’armatura con ampie piastre arrotondate tende a far atterrare il colpo con un angolo non ottimale, un po’ come succede con le armature dei carri armati che sono inclinate apposta, il che a pari spessore la rende più efficiente di un’armatura a scaglie o lamellare priva della stessa rigidità e forma. Alan Williams in “The Knight and the Blast Furnace” stima l’angolo di impatto tipico offerto come di circa 30° gradi: questo rende l’energia necessaria al colpo per penetrare maggiore di un 15-20% circa (energia per penetrare con un colpo perpendicolare divisa per il coseno dell’angolo d’impatto).

Lo spessore delle corazze pettorali del periodo si aggirava tra i 1,5 e i 2,5 mm, con la maggioranza dei reperti studiati da Williams sui 2 mm. La porzione frontale della corazza è quella più importante perché protegge gli organi vitali e, assieme alla parte frontale dell’elmo, è quella di maggior spessore. Per fare un esempio di quanto variasse lo spessore basta prendere i dati della seguente armatura da fanteria fabbricata a Innsbruck nel 1563: pettorale 1,9 mm; schiena 1,2 mm; elmetto 1,4 mm; fiancali (le piastre che scendono dalla corazza a proteggere l’area inguinale e la porzione superiore della coscia) 0,9 mm.
Un tipico cavaliere francese con indosso un’armatura italiana col pettorale spesso 2 mm (sotto forma di un sistema di piastre sovrapposte – pancera, petto e ampie spalle – o come piastra unica), avrò avuto schiena, bracciali e gambali tra gli 1 e gli 1,5 mm massimi.

Abbiamo le risposte ai primi quattro punti per delineare un’ottima corazza da cavaliere:

    1- spessore medio delle corazze pettorali: 2 mm;
    2- tipologia di metallo: acciaio a medio livello di carbonio raffreddato ad aria;
    3- forma della corazza: arrotondata;
    4- quattro.

 
Le Armi da Fuoco degli Imperiali
Lo schieramento imperiale comprendeva alcune migliaia di archibugieri spagnoli, ma che generi di armi portavano e quanta energia cinetica potevano offrire i loro proiettili?
Oltre all’archibugio vero e proprio, con la canna inferiore al metro e di calibro tra i 16 e i 20 mm, sparante proiettili sferici in piombo morbido del diametro di 15-19 mm (per via del gioco che facilita il caricamento ad avancarica, qui esagerato a un intero millimetro per comodità), vi era anche il “moschetto” (o archibugione) che nel linguaggio armiero riferito al ‘500 e alla prima metà del ‘600 non indica un “normale fucile ad anima liscia” come il Brown Bess settecentesco, bensì un’arma tanto grossa e pesante da dover essere maneggiata con l’aiuto di una forcella piantata al suolo (che aiuta a stabilizzare la mira e, in mancanza d’altro, si può usare per infilzare il nemico).

La canna del moschetto è molto lunga, il che aumenta notevolmente la velocità del proiettile. La polvere da sparo, in particolare quella non in grani, ha una combustione piuttosto lenta per cui se la canna è troppo corta il proiettile rischia di uscirne prima di aver ricevuto la spinta esplosiva da parte di tutta la polvere. Una canna abbastanza lunga (lunga in relazione sempre al calibro della canna, tant’è che vengono misurate in “calibri”) da permettere a tutta la carica di contribuire alla spinta migliora notevolmente le prestazioni.
Alan Williams ha condotto dei test usando una palla di piombo da 40 grammi sparata con una canna da 20 mm usando 20 grammi di polvere da sparo non in grani (serpentine powder, in inglese, una polvere composta da salnitro, carbone e zolfo nella percentuale 75-15-10). La dose di polvere pari a 1/2 del peso della palla, che può sembrare enorme, è normale per l’epoca (all’inizio del Quattrocento, con polveri meno valide di quelle del Cinquecento, si arrivava a dosi pari al peso della palla!) e ancora nel Settecento i manuali di addestramento inglesi prevedevano questa dose di polvere per il Brown Bess (qualunque dose tra 1/3 e 1/2 del peso della palla può essere considerata storicamente attendibile). Solo nell’Ottocento, con i proiettili minié più aereodinamici, le cariche vennero ridotte fino anche a 1/7 o 1/9 del peso della palla.
Il test ha previsto la variazione della lunghezza della canna per registrare come questo influisse sulla velocità alla bocca del proiettile. La canna lunga appena 13 calibri (254 mm) ha fatto raggiungere al proiettile una velocità di soli 149 m/s. Le canne lunghe 20 e 48 calibri (381 e 914 mm)hanno fatto registrare velocità alla bocca di 239 e 255 m/s. La canna ultralunga da 72 calibri (1372 mm), in grado di simulare un pesante moschetto con la forcella, ha permesso invece una velocità eccellente di ben 343 m/s.
La formula dell’energia cinetica è:

Ovvero metà massa (in kg) per il quadrato della velocità: se la massa raddoppia l’energia raddoppia, ma se la velocità raddoppia allora l’energia quadruplica. Semplice, no?

Un tipico archibugio con una canna di 900 mm che spari palle di piombo da 19 mm (40 grammi) a circa 255 m/s (con una dose di polvere da sparo non in grani pari a metà del peso della palla) avrà un’energia cinetica di 1300 J. Armi di calibro inferiore avranno energie sui 900-1200 J, ma difficilmente un archibugiere avrebbe portato con sé calibri piccoli, ad esempio 15 mm, anche perché la fabbricazione delle canne è più difficoltosa quando il calibro è minore. Inoltre i calibri inferiori (nel caso delle palle sferiche) sono meno efficaci nel penetrare le armature perché il calibro minore ha sì meno superficie da penetrare (bene), ma percentualmente ha ancora meno massa (male!): un proiettile da 16 mm rispetto a uno da 18 mm ha bisogno solo del 80% dell’energia necessaria al primo per penetrare una data corazza (formula di Krupp), ma la sua massa è solo il 70% per cui a pari velocità è svantaggiato rispetto al calibro maggiore di un buon 10%!

Con gli archibugi a miccia si poteva sparare dal petto/spalla, come mostrato nei manuali militari di fine ‘500, oppure dal fianco -per evitare vampate dello scodellino e fumo negli occhi- come mostrato in questo dipinto dedicato alla Battaglia di Pavia.
Disegno da un’opera di primo ‘500: cavaliere che spara con l’archibugio.
Da un manoscritto del 1473: archibugio usato dalla spalla.
“La Battaglia di Pavia. L’Avanzata di Carlo V.” Arazzo di Bernard van Orley (1508-1541), scuola fiamminga. Particolare con gli archibugieri che tirano dalla spalla e non dal fianco.

Un moschetto con la forcella, sempre in calibro 20 mm, avrà invece un’energia di 2300 J alla bocca grazie alla maggiore velocità della palla (sempre di 40 grammi in piombo). Ma questi moschetti erano presenti alla battaglia di Pavia del 1525? Secondo gli storici si, anche se non è dato sapere in quale quantità. Addirittura gli spagnoli dello schieramento imperiale erano stati visti usare questi nuovi mostruosi moschetti solo 4 anni prima, all’assedio di Parma del 1521, secondo la testimonianza di Martin du Bellay che dice di aver visto in mano agli spagnoli archibugi tanto grandi da richiedere l’uso di una forcella per sostenerli. E nel 1524 il “leale servitore” di Bayard testimonia la morte del suo padrone causata da un grosso proiettile sparato da uno di quegli archibugi tanto grandi da sembrare “hacquebute à croc” (ovvero archibugi da posta in italiano: grandi armi da usare in posizioni difensive, spesso poggiate su un sostegno a “uncino” come la forcella o dotate di un uncino di ancoraggio per il tiro dagli spalti e dai carri, da cui il “croc” indicato dal servo di Bayard).
Non c’è nessun motivo particolare per pensare che i suddetti spagnoli non avessero con sé queste mostruose armi da fuoco utilizzate nei quattro anni precedenti anche se nelle opere d’arte sulla battaglia si vedono archibugi più piccoli: le testimonianze dell’epoca, come quella di Paolo Giovio, ne dichiarano la presenza sul campo.
Quanto poteva pesare il proiettile sparato da un simile archibugione? Oltre ai classici 40 grammi già visti, un calibro ridotto per una simile arma, vi erano anche moschetti che sparavano proiettili di 70 grammi (4000 J a 340 m/s), ovvero con un calibro di quasi 23 mm. Vari proiettili da 50-70 grammi sono arrivati fino ai giorni nostri, testimonianza della corsa al calibro spaventoso dei moschetti con la forcella (i proiettili per archibugio da posta più pesanti di tutti, segnati nell’inventario di Norimberga di Conrad Gurtler del 1462, erano da 75 grammi).
La decelerazione dei proiettili sferici è molto rapida, tanto che nei primi otto metri arriva a 2,5 m/s per metro! Alla distanza di 100 metri un proiettile sferico ha già perso metà della sua energia cinetica (dati forniti da Bert S. Hall citando esperimenti di Benjamin Robins, il padre del pendolo balistico, e test moderni). Un proiettile sparato a 40 metri avrà probabilmente 2/3 dell’energia di partenza (stima a occhio).

Rimane il problema della polvere. Nella prima metà del Quattrocento venne inventata la polvere in grani, ovvero polvere da sparo umidificata con acqua o urina (quella dei religiosi era la più pregiata per via della loro vicinanza a Dio che li rendeva migliori: gli uomini del medioevo sapevano ragionare in modo “coerente”, ma bizzarro!), ridotta in panetti, divisa in grani di dimensioni uniformi e seccata. Questa polvere è molto migliore di quella classica perché i grani sono porosi e ricchi di ossigeno (che è un comburente per la fiamma), il che velocizza notevolmente la rapidità con cui viene rilasciato il gas dell’esplosione. Una carica di polvere in grani uniformi permette di inviare proiettili con 1/3 o più di velocità rispetto a quella non in grani, con un conseguente aumento dell’energia cinetica di almeno un 50%. Archibugi e moschetti con proiettili da 40 grammi farebbero in tal caso tra 1750 e 3000 J. Ma gli spagnoli di Pavia avevano nelle fiaschette della polvere in grani? Non lo so.

Sicuramente la conoscevano, ed è anche comoda dal punto di vista logistico perché non va rimescolata (la polvere normale, a causa dei differenti pesi delle componenti, tende a separarsi rovinando la miscela), ma non saprei se le armi da fuoco di Pavia fossero caricate con polvere in grani o con polvere non in grani. Non ho trovato fonti che ne parlassero. Probabilmente usavano entrambe, in base alla disponibilità, come era normale nel Quattrocento e all’inizio del Cinquecento. Solo negli anni successivi la polvere in grani uniformi, molto più comoda, diventò lo standard in Europa.

Tornando agli ultimi punti rimasti:

    5- armi da fuoco impiegate: archibugi e moschetti, in calibri tipici di 18-20 mm;
    6- energia cinetica: da 1300 a 3000 J in base a calibro, canna e polvere usata.

 

Manuale inglese di addestramento del ‘600:
caricamento e uso del moschetto con la forcella passo dopo passo
(clicca per vedere tutta la pagina)

 
Conclusioni: come simulare tutto ciò?
Partiamo dalle armi da fuoco: come visto bisogna ottenere una combinazione tra peso della palla sferica in piombo e velocità alla bocca che garantisca circa 1300 J per simulare l’archibugio classico con polvere serpentina e 3000+ J per simulare il moschetto con polvere in grani (o un moschetto con calibro poco più grosso di 20 mm, con polvere non in grani).
Disporre di un proiettile da 2300-3000 J è importante per rendere al meglio il test, data la presenza certa di grandi moschetti con la forcella a Pavia, vera “novità militare” degli spagnoli che unita al fuoco in massa, alle pessime armature francesi e alla stupidità di Francesco I permisero la vittoria straordinaria degli imperiali.

Come simulare le armature? Per simulare le corazze pettorali non servono vere e proprie corazze, ma basta sfruttare dei normali fogli di metallo di vario spessore variando quello al posto della qualità (così non bisogna mettersi a cercare ferri lavorati schifosi come i peggiori ferri francesi di primo ‘500).
Per simulare una buona armatura milanese basta prendere un normale foglio di acciaio dolce (mild steel) con le seguenti caratteristiche: 0,15-0,2% carbonio, sui 150-170 VPH, di 2 mm di spessore (o qualcosa di molto simile), con una resistenza alla frattura sui 235-250 KJ/m^2.
O qualcosa di simile, tanto se si usano armi del calibro e della potenza giusta (2-3000 J), non si noterà alcuna differenza.
Un foglio simile dovrebbe essere penetrato (inteso come “buco del diametro del proiettile”) con 750-800 J da un proiettile di 18 mm che non si deformi (ovvero in acciaio o, se in piombo, con energia sovrabbondante per non schiacciarsi all’impatto, come quello di un buon archibugio o di un moschetto). Per simulare l’angolatura dell’armatura basta inclinare il foglio in modo che il proiettile vi atterri con un angolo di 30 gradi. In tal modo la resistenza dell’armatura salirà a quasi 900 J (750 diviso il coseno dell’angolo).
Per simulare una corazza da 2 mm in pessimo ferro francese (robusto la metà del buon acciaio milanese) basta prendere un foglio dello stesso acciaio dolce di prima (AISI 1015-1020), ma con uno spessore di solo 1,6 mm (vedesi test di Williams).
Ma dimostrare di poter penetrare un buon foglio di acciaio è un test sufficiente: se passa un AISI 1050 è ovvio che passerà anche una schifezza che vale meno della metà!

Se invece dell’acciaio dolce si dovesse usare dell’AISI 1050, ovvero acciaio al carbonio con 0,5% di carbonio (e ovviamente senza scorie schifose dentro, trattandosi di acciai moderni), con resistenza alla frattura di 320 KJ/m^2 circa per un foglio da 2 mm, allora bisognerebbe variare gli spessori di tutto.
Per simulare l’armatura milanese da 2 mm usando un acciaio AISI 1050 (1,36 volte più robusto del mild steel a 0,15%, secondo Williams, ma secondo altri dati -tensile strength in MPa su eFunda- 1,6 volte più robusto) bisogna disporre di un foglio da 1,6-1,8 mm. Per simulare con l’acciaio 1050 una pessima armatura in ferro francese da 2 mm ne servirà uno da 1,4 mm, diciamo.

Alla fine, per simulare una delle migliore corazze pettorali possibili a Pavia, si è optato per un acciaio AISI 1040 (UNI C40) spesso 2 mm. E’ un 10-15% più robusto del tipico acciaio milanese che si voleva simulare, ma non importa. Il tiro eseguito, come spiegato nell’articolo sulla giornata di riprese, ha permesso un impatto angolato adeguato per simulare un’armatura arrotondata.

Nel futuro articolo dedicato ai moschetti con la forcella verrà inserita una modellazione fatta con le formule di penetrazione dei proiettili nella carne e nell’acciaio dolce per simulare, con un esperimento teorico che è più un giuoco che altro, le affermazioni di Paolo Giovio sulla potenza dei pesanti archibugi spagnoli. Giuochiamo con la Storia! ^__^
La simulazione era stata inclusa nel documento inviato a History Channel ed era piaciuta molto.

Il Duca di Baionette

Sono appassionato di storia, neuroscienze e storytelling. Per lavoro gestisco corsi, online e dal vivo, di scrittura creativa e progettazione delle storie. Dal 2006 mi occupo in modo costante di narrativa fantastica e tecniche di scrittura. Nel 2007 ho fondato Baionette Librarie e nel gennaio 2012 ho avviato AgenziaDuca.it per trovare bravi autori e aiutarli a migliorare con corsi di scrittura mirati. Dal 2014 sono ideatore e direttore editoriale della collana di narrativa fantastica Vaporteppa. Nel gennaio 2017 ho avviato un canale YouTube.

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